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Eroi dei due mondi | Emerson Fittipaldi

Longevo e inossidabile: è stato grande sia in Europa che in America, tracciando un percorso unico. Non solo nello spazio, ma anche, e soprattutto, nel tempo

Anno 1970. Il mondo è in piena Guerra Fredda e in Brasile c’è la dittatura militare. Il motorismo brasiliano è agli albori, Nelson Piquet e Ayrton Senna sono dei ragazzini sconosciuti. Intanto un giovanissimo verdeoro si sta facendo notare nella massima formula: si chiama Emerson Fittipaldi. Ha 23 anni e a Watkins Glen si è aggiudicato il GP.

Anno 1995. La Guerra Fredda è finita e in Brasile c’è la democrazia. Nelson Piquet e Ayrton Senna non ci sono più. Intanto, in F. Indy Emerson Fittipaldi è ancora alla ribalta e alla soglia dei cinquant’anni si batte per il titolo con la Penske PC-23. Sono passati 25 anni dalla sua prima vittoria iridata. Un quarto di secolo. Sono due epoche lontane, diversissime, legate da un comune denominatore: Fittipaldi c’è sempre. Che sia in Formula Uno, dove l’asso brasiliano domina la prima metà degli anni Settanta, o in F. Indy, dove si prende la scena a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta.

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Per Emmo, come viene soprannominato, l’etichetta di ‘Eroe dei due mondi’ sembra pure andare stretta, visto che il suo non è solo un itinerario motoristico di assoluto prestigio, ma anche un vertiginoso viaggio tra epoche lontane. Partito da una Formula Uno quasi agli albori, quella degli anni Settanta, senza effetto suolo e tra i circuiti più improbabili. E conclusosi tra gli ovali della F. Indy 25 anni fa, quando la categoria americana già stava toccando livelli di sicurezza moderni.

GLI ESORDI DA PREDESTINATO

Eroe dei due mondi, ma anche eroe di due epoche, Emerson Fittipaldi vanta una carriera che è un’enciclopedia del vecchio motorsport, tante sono le situazioni, le circostanze, i contesti tecnologici e regolamentari attraversati. Il debutto nella massima formula avviene nel 1970, con l’aura del predestinato. A chiamarlo è nientemeno che Colin Chapman, il genio della Lotus, che lo vuole per affiancare la punta di diamante Jochen Rindt. In sole tre gare, Fittipaldi, 23 anni e zero esperienza, si ritrova pilota di riferimento, perché lo sfortunato austriaco, poi campione postumo, perde la vita a Monza, e la seconda guida John Miles getta la spugna.

L’apprendistato di Fittipaldi è rapidissimo: al Glen, penultima tappa iridata, è già sul gradino più alto. Ormai Emmo è pronto a giocarsela, ma deve pazientare perché nel 1971 la vettura proprio non ne vuole sapere di andare. L’anno successivo arriva la consacrazione scritta da tempo: con 5 vittorie su 12 corse, Fittipaldi si laurea campione al volante della Lotus 72D. Ma il rapporto con Chapman è prossimo a raggiungere i minimi termini: nel ’73 la Lotus rovina l’armonia interna ingaggiando il talentuosissimo Ronnie Peterson. Due galli in un pollaio non ci stanno: Fittipaldi perde il titolo, Peterson pure, e a godere è il terzo incomodo Jackie Stewart, alla sua ultima esperienza nei Gran Premi.

emerson fittipaldi 1975
© Goodwood.com

Fitti lascia la Lotus e comincia il secondo capitolo, stavolta alla McLaren. Un capitolo breve, a due facce: glorioso nella prima metà – il 1974, l’anno della seconda corona – e disastroso nella seconda. La M23 del ’75 è come la Lotus ’71: un disastro. Come quattro anni prima, anche il capitolo McLaren imbocca velocemente i titoli di coda. Ne comincia un altro: bello, stimolante, avventuroso sulla carta. Una penuria nella realtà dei fatti. Con il sostegno del fratello Wilson e l’appoggio finanziario dello zuccherificio brasiliano Copersucar, Fittipaldi s’inventa l’omonima scuderia e battezza la carriera da pilota costruttore.

Il personale tecnico ci sarebbe pure – tra le fila della Copersucar c’è Jo Ramirez, futuro direttore della McLaren-Honda, e un folto plotone di tecnici inglesi di alto profilo – e anche gli sponsor non mancano. Ma i risultati dicono altro. Il miglior bottino arriva nel ‘78, con 17 punti complessivi e la 10ª piazza iridata, ma sono più le battute d’arresto che non le gioie (effimere). Così, nel 1980, Fittipaldi chiude con la Formula Uno, dopo un decennio agrodolce: da manuale nella prima metà, disastroso nella seconda.

NUOVA GIOVINEZZA DI EMERSON FITTIPALDI

Tutto finito? Niente affatto. Ad attendere Fittipaldi c’è l’America, con la F. Indy che all’epoca minaccia pure lo status di primato della Formula Uno, per prestigio e piloti coinvolti. L’apprendistato stavolta è lungo, un po’ per la differente filosofia del motorsport americano rispetto a quello europeo, un po’ per le vetture poco competitive che gli capitano tra le mani. Solo nel 1989, a cinque anni dallo sbarco in Indy, la carriera americana di Fittipaldi spicca il volo, grazie a Roger Penske che crede in lui ingaggiandolo nella sua organizzatissima formazione. Quell’anno arrivano due gioie: la vittoria della Indy 500, dopo un duello al fulmicotone con Al Unser Jr., e il titolo di campione. Scegliete voi a quale dare più peso…

L’ultima gioia arriva nel ’93, a 46 anni suonati, con il bis a Indianapolis. Non c’è spazio invece per altri titoli della F. Indy nel palmarès del brasiliano, ma che importa. L’impresa è compiuta, e per inciso fino al ’95 Fittipaldi è sempre un candidato al trono iridato. Proprio nel suo ultimo anno agonistico, in un’intervista ad Autosprint, Emerson Fittipaldi ha svelato a cuore aperto le difficoltà che un eroe dei due mondi come lui ha dovuto affrontare, per giostrarsi in due contesti motoristici agli antipodi come quello della Formula Uno e quello della Indy.

emerson fittipandi indycar
© indycar.com

FILOSOFIE OPPOSTE

Due sono le problematiche principali: il giro secco e i sorpassi all’esterno che la corsa su un ovale impone“Nella mia carriera ho conosciuto tutte le situazioni – commenta Fitti nel ’95 – e posso dire che la qualifica su un ovale è quella in cui un pilota si trova più al limite. Ti devi spremere molto di più rispetto a qualunque circuito stradale. Ci vuole una grande preparazione psicologica e tanta fiducia, in te stesso e nell’auto. Ancor peggio sono le corse, sempre su ovale, dove spesso devi superare dall’esterno, ben sapendo che trovi un asfalto assai sporco e che chi stai attaccando può anche schiacciarti contro il muro…”.

E allora arriviamo alla domanda delle domande: era peggio la Formula Uno degli anni ’70 o gli ovali della Indy? “Gli ovali! – risponde secco Fitti – Ho dovuto cambiare me stesso, per affrontarli. È stato un lavoro lungo, perché non si accetta subito l’idea di sfiorare i muretti o le ruote delle altre monoposto. Devi imparare a coabitare con una situazione di altissimo rischio”. Ecco, la frase finale – “coabitare con una situazione di altissimo rischio” – sembra condensare al meglio la carriera di un grande. Una leggenda del motorsport capace di adattarsi a due mondi opposti, Europa e America, la cui duplice conquista è impresa che ancora oggi incute soggezione.

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Luca De Franceschi

Sono Luca, studio Lettere e seguo la Formula 1 da una decina d'anni. Mi sono appassionato a questo sport durante l'era dei successi di Michael Schumacher con la Ferrari, per poi assistere alle prime vittorie di Fernando Alonso, Lewis Hamilton e Sebastian Vettel. A casa ho diversi DVD sulla storia di questo sport, che mi hanno fatto conoscere i piloti e le auto del passato. Ho anche la passione dei kart, sui quali ogni tanto vado a girare.

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