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Formula 1 e diritti umani: una storia controversa

Che i diritti umani non fossero esattamente al centro delle attenzioni di chi, negli anni, ha organizzato il mondiale di Formula 1 non è una novità. Se ne può discutere all’infinito. Il rapporto tra lo sport e la politica è tema tra i più controversi e storicamente ci sono andati di mezzo edizioni delle Olimpiadi, tornei di tennis e calcio, manifestazioni di altissimo livello di ogni disciplina ad ogni latitudine.

Il conflitto russo – ucraino, con l’intero blocco occidentale schierato contro Putin, ripropone il solito interrogativo. É accettabile che la Formula 1 corra in un paese di cui sono quasi universalmente riconosciute le violazioni dei diritti umani o il cui governo si fa beffa di patti e vincoli stabiliti nei paesi occidentali?

Un po’ di storia: la Formula 1 dalla parte dei regimi

Senza pretendere di mettere sullo stesso piano situazioni politiche molto diverse, una scorsa al calendario dei mondiali di Formula 1 evidenzia un fatto inequivocabile. E cioè che gli organizzatori del mondiale non hanno certo disdegnato di trattare con esponenti di governi autoritari, se non sanguinari.

Anzi, l’organizzazione di un Gran Premio era spesso vista da quei governi come uno strumento per essere accettati nella comunità internazionale. O per dimostrare le proprie capacità di organizzare un evento in perfetto stile occidentale.

Il Marocco nel ’58, i gran premi nei paesi sudamericani governati dai militari, gli stabili appuntamenti con la Spagna franchista o le frequentissime visite al Messico della dittatura comunista. A prescidere dal segno politico di Gran Premi in paesi non democratici se ne sono visti a decine.

Il caso del Sudafrica: un primo passo verso la sensibilizzazione

Se non si può certo dire che la Formula 1 abbia fatto marcia indietro, rispetto alla propria disponibilità verso i regimi totalitari, c’è un caso in cui se non altro ci fu una concreta azione di protesta. Il gran premio del Sudafrica del 1985 fu l’ultimo, per diversi anni, ad essere corso in un paese dove l’apartheid comportava una repressione durissima verso la popolazione nera. Ligier e Renault si rifiutarono di partecipare, anche Alan Jones diede forfait.

E per quasi dieci anni non si tornò a Kyalami, circuito nei pressi di Johannesburg non lontano da quell’autentico simbolo della prevaricazione razziale che era la città di Sun City.  La “Las Vegas sudafricana” fu per anni al centro di accese polemiche, perché nonostante facesse parte della regione del Bophuthatswana in cui veniva praticato un apartheid durissimo, tante stelle dello spettacolo non si rifiutarono di esibirsi.

Le aperture verso l’Oriente: dall’Ungheria alla Cina, fino alla Russia

Un altro passo molto discusso fu l’apertura ai paesi del Patto di Varsavia, iniziata nel 1986 quando ancora la Cortina di Ferro aveva un significato ben preciso. Il primo Gran Premio corso all’Hungaroring apparve come un segnale di pacificazione. In realtà Ecclestone aveva previsto, ben prima di tanti politici del tempo, che i regimi comunisti stavano andando verso la dissoluzione. E che costituivano un mercato fiorente per l’industria dell’auto.

Dall’Ungheria, alla Cina, alla Russia il passo fu breve. In barba alla guerra fredda e alle condizioni delle popolazioni perseguitate negli ultimi decenni i Gran Premi corsi in Asia si sono moltiplicati. E i giornali si sono riempiti delle foto dei padroni della Formula 1 con Putin, i burocrati cinesi, gli oligarchi dell’Azerbaigian.

I paesi arabi: un caso estremo e scottante

Ma la contiguità con i regimi asiatici è niente rispetto all’espansione della formula 1 nei paesi arabi. La violazione dei diritti umani o il trattamento delle donne e degli omosessuali in tanti paesi islamici è sotto gli occhi di tutti. Eppure esistono i Gran Premi del Bahrain, del Qatar, di Abu Dhabi e per ultimo quello dell’Arabia Saudita.

Baku europeGP F1 2016
© Pirelli Press Area

A poco sono servite manifestazioni del tutto simboliche: gli inginocchiamenti, i caschi con l’arcobaleno o le dichiarazioni di alcuni tra i campioni più popolari. Alla fine tutti in pista, asserviti a contratti troppo vantaggiosi per poter essere infranti, o semplicemente messi in discussione.

La Formula 1 tiene conto dei diritti umani nei paesi che la ospitano? La risposta è sconfortante

E allora tanto vale togliere il velo e dire le cose come stanno. Tra tutti gli sport la Formula 1 è, forse insieme al pugilato, quello che meno ha dimostrato sensibilità verso i diritti umani. Da sempre si è corso ovunque, stretto mani guantate di autentici assassini, sollevato trofei in circuiti costruiti da schiavi. E se qualche pilota ha osato sollevare qualche logica perplessità non è stato certo appoggiato. Anzi, a malapena tollerato, alcune volte dai tifosi stessi.

La Formula 1 è uno straordinario veicolo di comunicazione. Ospita alcuni tra i marchi più conosciuti del pianeta, organizza eventi seguiti da miliardi di persone. Ma è dalla parte “forte”, quella del mondo ricco. Non vuole avere niente a che fare con la giustizia sociale, l’uguaglianza e il riconoscimento dei diritti dei più deboli. E’ la triste verità.

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David Bianucci

Mi chiamo David Bianucci, nato a Prato ma trasferito per amore e lavoro sui colli Euganei in provincia di Padova. Sono uno sportivo a livelli di fanatismo, ho praticato la pallanuoto per vent'anni e ora faccio i campionati di nuoto Master. Ma le sensazioni più forti me le ha sempre regalate la Formula 1, sin da quando a nove anni ho visto il Gran Premio di San Marino del 1981. Sono seguite sveglie notturne per vedere i gran premi asiatici, autentiche fortune spese in riviste specializzate, giornate tra le frasche del Mugello per guardare girare di nascosto Michael Schumacher. Essere diventato nel frattempo Ingegnere Meccanico non ha migliorato la cosa... Scrivo perchè non posso fare niente per evitarlo.

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