I grandi flop | Jaguar Racing (2000-2004)
La breve esperienza del marchio britannico nel Circus fu condizionata da una gestione fallimentare
“Siamo qui per rilanciare il marchio Jaguar, perché esso vale almeno quanto quello della Ferrari. Così come c’è una marea rossa a ogni GP che inneggia al Cavallino, io sogno di vedere una altrettanto grande marea verde a farle concorrenza”. Così parlava Jacques Nasser, numero uno del progetto Jaguar Racing che all’alba del nuovo millennio si presentò ai nastri di partenza del GP inaugurale a Melbourne.
Parole ambiziose le sue, cui però fece seguito una realtà dei fatti diametralmente opposta. E dire che, sulla carta, il potenziale c’era pure, in quella che fu un’operazione voluta dalla Ford per ridare lustro al marchio del giaguaro attraverso il palcoscenico della Formula 1.
DA STEWART A JAGUAR
A fine ’99, infatti, la casa fondata da Henry Ford acquisì l’intero team della Stewart GP, che già aveva trionfato in un’occasione proprio l’anno precedente, nel concitato GP del Nurburgring. Non mancava il budget, con sponsor munifici che di lì a poco avrebbero occupato le carrozzerie delle Jaguar (HSBC e Beck’s su tutti), e nemmeno i piloti: nella stagione d’esordio la Jaguar poteva vantare due veterani come Eddie Irvine, vice campione nel ’99, e Johnny Herbert. Tutto bello, almeno a parole, ma la realtà dei fatti ci mise poco a mostrare ai vertici della Ford quanto la Formula 1 fosse un giocattolo costoso.
Quello della Jaguar rimane a oggi il caso più emblematico di un flop ascrivibile a evidenti pecche manageriali. Quando il timone della scuderia fu rilevato da William Clay Ford Jr., il cui obiettivo principale era far quadrare i conti badando in modo maniacale alle spese, emersero tutti i limiti di un simile approccio.
Non solo: i vertici della Ford dimostrarono fin da subito evidenti lacune conoscitive riguardo allo stesso mondo della Formula 1. Basti considerare la gaffe dello stesso Ford Jr. il quale, appena insediatosi a capo del progetto, mentre consultava la lista dei dipendenti a libro paga, sbottò così: “Ma chi diavolo è questo Edmund Irvine e perché dovrei pagarlo 12 milioni di dollari?”. Il nome ‘Edmund’ con cui Ford Jr. ribattezzò il suo pilota di punta non era un lapsus: il boss della Ford, a inizio 2001, davvero non conosceva il nome esatto di chi guidava le sue vetture…
MAGRO BOTTINO
Sotto questi presupposti cominciò l’avventura del marchio inglese nella massima formula, con la naturale conseguenza che i risultati lasciarono a desiderare. Nel 2000 la coppia Irvine-Herbert racimolò in totale appena quattro punti, tutti grazie all’ex pilota Ferrari, che evitarono al marchio del giaguaro l’imbarazzo dell’ultimo posto tra i Costruttori. Gli anni seguenti le cose migliorarono di poco, e comunque mai in maniera clamorosa.
Tra il 2001 e il 2002 giunsero due podi di tappa, entrambi autografati da Irvine, e pochi altri risultati di rilievo. Dall’8° posto finale nel 2001, la Jaguar balzò al 7° l’annata seguente, che mantenne anche nei due campionati successivi quando al volante subentrarono nuovi talenti, chiaro indice della nuova strategia di puntare su piloti giovani. Tra il 2003 e il 2004 corsero infatti per il giaguaro Mark Webber, Antonio Pizzonia e Christian Klien, tutti giovani di belle speranze. In particolare, l’australiano Webber si dimostrò veloce in qualifica, ma mai sufficientemente competitivo in gara.
UNA GESTIONE FALLIMENTARE
I limiti gestionali continuarono a mortificare il potenziale delle monoposto color verde. I vertici della Jaguar investivano poco sulla Formula 1, vista più come un palcoscenico per pubblicizzare il marchio che non come una piattaforma su cui impegnarsi a fondo. Negli ultimi tempi, un pilota che in Jaguar avrebbe potuto andare – David Coulthard – ha affrontato proprio questo tema con parole inequivocabili: “Nel 2004 lasciai la McLaren, così col mio manager ci mettemmo alla ricerca di un nuovo team e parlammo con diverse squadre. Una di queste era la Jaguar, ma io non avevo la minima intenzione di accasarmi là. Dissi al mio manager Martin Brundle che avrei preferito ritirarmi o fare il collaudatore piuttosto che correre per la Jaguar. La loro gestione delle corse non avrebbe mai dato buoni risultati”.
E così fu. Dopo un lustro a girare nel mondo dei GP, l’operazione di marketing voluta dalla Ford per rilanciare il marchio britannico volse al termine. In vista del 2005, il team venne ceduto alla Red Bull, i cui risultati futuri sono ben noti. Quelli della Jaguar, invece, rimarranno alla storia come emblematici di un’operazione condotta con l’approccio sbagliato, e che in cinque campionati ha fruttato la miseria di 49 punti totali, tre settimi posti come migliori piazzamenti finali e due podi di tappa. Davvero poco per uno dei progetti che, insieme a BAR e Prost GP (scuderie più o meno coeve della Jaguar) partiva con ben altri propositi.