Le morti più tragiche in Formula 1, parte I: Marimón, il primo deceduto della storia
I primi passi in avanti significativi in materia di sicurezza furono fatti nel 1973, dopo la tragica morte di François Cevert

Quello di Jules Bianchi è stato l’ultimo di una malavventurata serie di incidenti mortali.
Le morti più tragiche: “Motorsport is dangerous”. Gli americani lo scrivevano anche sui pass paddock. In certi casi verrebbe da dire che chi corre sa quel che rischia morti. Fa parte del mestiere certamente, e forse proprio quella percentuale di pericolo e imprevedibilità, rende, ancora oggi, estremamente interessante la Formula 1. Negli ultimi vent’anni di incidenti, e anche gravi, nel Circus, ce ne sono stati parecchi ma fortunatamente i progressi effettuati nel campo della sicurezza hanno scongiurato la maggior parte delle tragedie.
Proprio a tal riguardo, le prime considerazioni a riguardo della sicurezza iniziarono a essere fatte nel 1973, dopo la morte di François Cevert nelle prove del Gran Premio degli Stati Uniti a Watkins Glen. Fu proprio Jackie Stewart, amico del pilota francese, a impegnarsi attivamente sotto questo aspetto. L’obiettivo era quello di rendere la Formula 1 più sicura diminuendo le morti più tragiche. Andiamo a ripercorrere assieme i momenti più tragici nella storia della classe regina del Motorsport.
ONOFRE MARIMÓN

Classe ’23, Onofre Agustín Marimón è stato un pilota di Formula 1 tra il 1951 e il 1954, allievo di Juan Manuel Fangio. Arrivato in zona punti in appena due occasioni, sempre sul gradino più basso del podio, Marimón è tragicamente scomparso in occasione delle prove del Gran Premio di Germania del 1954.
Era il 31 luglio del 1954. Per la prima volta nella sua storia il mondo della Formula 1 deve fare i conti con la morte. Infatti quella della giovane promessa argentina viene considerato come il primo incidente mortale avvenuto nella storia della Categoria. In occasione delle prove sul circuito del Nurburgring, Marimón, che stava guidando una Maserati 250F, uscì di pista alla curva Wehrseifen.
ALBERTO ASCARI

Classe ’18, Alberto Ascari era figlio d’arte e ancora adesso viene ricordato per essere stato l’unico pilota italiano capace di conquistare il titolo mondiale di Formula 1 con la Ferrari. Esattamente come il padre Antonio, Alberto si mostrò un grande appassionato di motori fin dalla più tenera età.
Gli esordi nelle corse per il pilota italiano avvennero nelle competizioni motociclistiche nel 1936 mentre il passaggio alle quattro ruote si concretizzò solo nel 1940, probabilmente anche per paura di essere confrontato col padre. Dopo un primo debutto alla Mille Miglia, alla guida di una vettura fornitagli da Enzo Ferrari, Alberto Ascari dovette attendere il 1947 per tornare a gareggiare, dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Ciccio, come lo chiamava il padre, ottenne la sua prima vittoria proprio quell’anno, sul Circuito di Modena. La stagione successiva, il pilota milanese ottenne la sua prima affermazione al Gran Premio di San Remo.
Ritenuto ormai ampiamente uno dei talenti di maggior spicco del panorama automobilistico e dopo aver preso parte a diverse altre corse, in occasione del GP di Monaco del 1950 fece il suo debutto in Formula 1 proprio su una Ferrari.
Il primo titolo mondiale vinto sotto i colori del Cavallino Rampante porta la firma del 1952. Per alcuni una vittoria facile, complice il ritiro dalle competizioni da parte dell’Alfa Romeo e dall’assenza di Fangio. Ma per smentire le malelingue, Alberto Ascari bissò il successo nel 1953 portandosi a casa sei pole position, quattro giri veloci in gara e cinque vittorie ottenute. Eppure quella stagione si concluse in modo inaspettato: dopo quattro stagioni in Ferrari, a termine anno il pilota italiano avrebbe lasciato il team di Maranello per entrare in Lancia.
Dopo una stagione 1954 difficile a livello di prestazioni, nel 1955 sembrava che Lancia D50 avesse finalmente trovato la giusta competitività per permettere ad Alberto di lottare ancora contro Fangio. Durante il GP di Monaco, il milanese si rese protagonista di un rocambolesco incidente. Probabilmente per un problema tecnico, la sua monoposto finì in acqua, un sommozzatore si tuffò per soccorrerlo, ma Ascari era giù uscito dalla vettura e risalito a galla, illeso. Forse questo era un segnale da parte del destino.
Era il 26 maggio. Trent’anni prima, sempre il 26 ma di luglio, era morto il padre Antonio. Fu vittima di un incidente automobilistico a Montlhery e da quel giorno Alberto decise che non avrebbe mai più guidato una vettura ogni 26 del mese. Ma quel giorno si fece convincere da Luigi Villoresi e Eugenio Castellotti a raggiungerli a Monza. Stavano testando una nuova Ferrari 750.
Il pilota milanese, appena arrivò in autodromo si fece prestare una vettura da Castellotti per prendere la mano con la pista, senza il suo casco e i suoi guanti. Dopo appena tre giri, Alberto Ascari uscì come un siluro alla curva del Vialone (poi ribattezzata col nome del pilota). Sul posto non c’era nessun segno di frenata, tanté che si pensò che magari il pilota potesse aver avuto un malore. Morì sul colpo a causa dello sfondamento del torace, schiacciato sotto il peso della vettura.
EUGENIO CASTELLOTTI

Classe ’30, Eugenio Castellotti, considerato l’erede di Alberto Ascari, di cui era molto amico, era un pilota aggressivo e veloce. Il padre, che ne riconobbe la paternità solamente parecchi anni dopo la sua nascita, non desiderava per lui un futuro nell’automobilismo.
Erede di una famiglia di ricchi proprietari terrieri, il giovane Eugenio iniziò a correre a 18 anni, quando il padre morì e comprò immediatamente una Ferrari 166MM. Proprio con quella vettura nel 1951 prese parte alla Mille Miglia, dove arrivò sesto.
La sua grande passione erano le gare di durata: ottenne le sue prime vittorie alla Coppa d’Oro di Sicilia, nel GP di Portogallo nell’edizione per vetture sport. Poi passò alle monoposto: prima in Formula 2, poi in Formula 1. Nel 1956 oltre alla Mille Miglia trionfò anche alla 12 ore di Sebring in coppia con Fangio.
La stagione più tragica per Castellotti fu quella del 1955. Il pilota italiano correva per la Lancia, assieme al suo amico Ascari ma a seguito della morte di quest’ultimo, la casa torinese decise di ritirarsi dal mondiale.
Nel 1956 passò alla Ferari, dove poteva dedicarsi sia alle gare di durata sia a quelle di Formula 1. Proprio quell’anno conobbe e si innamorò di Delia Scala, la soubrette italiana più conosciuta dell’epoca. Erano belli, simpatici, non c’era un settimanale che non parlasse di loro. Una coppia da rotocalco. Dovevano sposarsi a fine 1957 e, si dice, avessero anche firmato una sorta di accordo pre-matrimoniale: lei avrebbe smesso di recitare e lui di correre. Una storia bellissima sulla carta, ma stoppata dal destino.
Era il 14 marzo del 1957. Mentre Eugenio Castellotti si trovava a Firenze, per assistere a uno spettacolo teatrale nel quale recitava Delia, venne raggiunto da una telefonata di Enzo Ferrari: il pilota italiano era convocato all’autodromo di Modena per battere il tempo che Behra fece segnare con la Maserati 250F.
Aveva dormito poco quella notte Castellotti. Si racconta a causa di un brutto litigio con la fidanzata. Appena giunto all’alba al circuito decise di salire in macchina per iniziare il test. Dopo appena tre giri uscì di pista, schiantandosi a circa 200 km/h nelle vicinanze del rettilineo delle Tribunette. Perse il controllo della vettura e morì sul colpo ma le cause non furono mai completamente chiarite anche se non venne registrato alcun cedimento meccanico o foratura.
CHRIS BRISTOW

Classe ’37, Chris Bristow prese parte ad appena quattro gare nel Mondiale di Formula 1, non arrivando mai a punti. Figlio del proprietario di un’officina di Londra, il pilota britannico morì tragicamente in occasione del Gran Premio del Belgio del 1960, che si disputava sul tracciato di Spa. Un fine settimana ricordato, ancora oggi, visto che l’incidente mortale di Bristow non fu l’unico del weekend.
Era il 19 giugno 1960. L’inglese, al volante di una Cooper T51, in occasione del ventesimo giro della corsa stava provando ogni soluzione per stare davanti alla Ferrari di Willy Mairesse. Alla curva Burnenville, che si affrontava a circa 200 km/h, perse il controllo della sua vettura andando a sbattere contro le protezioni. Bristow morì sul colpo. Venne letteralmente decapitato dal filo spinato che si trovava all’esterno della curva e che separava di fatto l’asfalto del tracciato dal prato confinante.
ALAN STACEY
Classe ’33, Alan Stacey viene ricordato per essere stato uno dei pochi piloti che, nonostante una protesi alla gamba destra, riuscì ad arrivare in Formula 1. L’inglese, all’età di diciassette anni, si rese protagonista di un incidente in moto. A causa delle conseguenze, i medici decisero di amputargli la parte inferiore dell’arto e sostituirlo con una protesi artificiale.
Nonostante questo fattore non solo debuttò nel Circus ma si assicurò una Lotus alla corte di Colin Chapman.

Nonostante la grande determinazione di questo pilota, Stacey trovò la morte, nella stessa giornata di Chris Bristow, sempre in quel maledetto Gran Premio del Belgio del 1960. Pochi giri dopo il collega e praticamente nello stesso punto.
Mentre Stacey stava occupando la sesta posizione, un uccello colpì in pieno volto il pilota che perse inevitabilmente il controllo della sua vettura. L’inglese, sbalzato fuori dall’abitacolo, Il pilota, sbalzato fuori dall’abitacolo, morì praticamente sul colpo a seguito delle ferite riportate nell’incidente.
WOLFGANG VON TRIPS

Classe ’28, Wolfgang von Trips, viene ancora oggi ricordato col soprannome di Barone Rosso. Nonostante siano passatiquasi sessant’anni dalla tragedia che lo ha visto protagonista sul tracciato di Monza, quell’incidente continua a essere probabilmente il più grave nella storia della Formula 1.
Era il 10 settembre 1961. La lotta per il titolo iridato è praticamente un affaire privato tra i piloti Ferrari di quella stagione, Phil Hill e Wolfgang Von Trips. Se lo statunitense era riuscito a imporsi in Belgio, il tedesco aveva fatto suoi i GP di Olanda e Gran Bretagna. E la pista di Monza, in un certo senso, rappresentava il tracciato perfetto per la resa dei conti tra questi due assi del volante: un circuito velocissimo dove ogni errore viene pagato, ahimé, a caro prezzo.
Appena al secondo giro, nessuno avrebbe immaginato che in Brianza si sarebbe consumata una tale tragedia.
Von Trips prese il via della corsa in pole position ma al secondo giro si trovava poche posizioni indietro, davanti alla vettura di Jim Clark. All’altezza della curva Parabolica i piloti sfrecciavano a una velocità di quasi duecento chilometri all’ora. Proprio in quel punto Clark iniziò a spostarsi verso destra per provare a superare von Trips. Il tedesco fece lo stesso, con l’obiettivo di proteggersi le spalle e lo scontro tra i due fu inevitabile. Le due vetture si agganciarono e la 156 F1 del pilota della Ferrari prese letteralmente il volo decollando sugli spettatori.
Se la Lotus di Clark dopo diversi testacoda riuscì a fermarsi sull’erba e il pilota uscì incolume; la Ferrari di Von Trips si spezzò in più parti, il tedesco venne sbalzato fuori dall’abitacolo e morì sul colpo. Medesimo destino anche per quindici spettatori che stavano seguendo la corsa proprio ai bordi della pista, separati da una semplice staccionata. La vettura di Von Trips a tutta velocità falciò una parte del pubblico. Alcuni morirono, altri furono portati urgentemente in ospedale con ferite più o meno gravi. Le misure di sicurezza, per piloti e spettatori, non erano certamente equiparabili a quelle odierne e, sebbene lo spettacolo che si trovarono davanti i soccorritori fu spaventoso, si decise di far proseguire la corsa. Solamente a termine del GP a Hill, reclamato sul podio, venne detto che il suo compagno di squadra, avversario e amico, fosse morto.
RICARDO RODRIGUEZ

Classe ’42, Ricardo Rodriguez de la Vega era il più giovane di una coppia di fratelli di un’agiata famiglia messicana.
Fin da bambino Ricardo le ha tentate tutte per emulare Pedro, il maggiore dei due. Dopo aver corso in bicicletta e in motocicletta, il più piccolo dei fratelli Rodriguez decide di buttarsi nelle quattro ruote, mostrando da subito un talento cristallino che in breve tempo porta a conoscere il suo nome anche nel vecchio continente.
Quando Ricardo Rodriguez aveva appena 19 anni e 209 giorni, forse grazie alla sua determinazione e caparbietà, nel 1961 Enzo Ferrari decise di affidargli una vettura clienti per il GP di Monza. Gli ottimi risultati ottenuti in stagione, hanno permesso al pilota messicano di essere confermato anche per il 1962 dove ottiene un secondo posto a Pau, un quarto in Belgio e un sesto in Germania. Di lì a poco si stava avvicinando forse l’appuntamento più importante dell’anno, il GP del Messico, la gara di casa per Ricardo Rodriguez, sebbene non fosse un gran premio non valido per il campionato piloti.
Proprio per questo motivo la Ferrari decise di non presentarsi per la gara, obbligando di fatto il pilota messicano a cercarsi una vettura disponibile per correre il Gran Premio.
L’opportunità prende il nome di Lotus. L’accordo si concluse in occasione della gara di Monza. Era una vettura privata del Rob Walker Racing Team. Era il 1° novembre e nessuno avrebbe immaginato come il destino avrebbe tragicamente concluso la carriera di questo ventenne, ritenuto un talento dal futuro costellato di successi. In occasione della prima giornata di prove, nel tentativo di superare il tempo di John Surtees, probabilmente a causa del cedimento della sospensione posteriore destra, Ricardo Rodriguez perse il controllo della sua vettura che si schiantò violentemente contro le barriere alla curva sopraelevata Peraltada e prese fuoco. Il messicano riportò ferite gravissime e morì pochi minuti dopo l’impatto.
JO SCHLESSER

Classe ’28, Jo Schlesser prima di approdare al mondo della Formula 1, ed esattamente come molti al suo tempo, ha sperimentato altre categorie automobilistiche. Il pilota francese, dopo un inizio nei rally si dedica alle vetture sport e a competizioni simili alla Mille Miglia.
È nel 1960 che inizia a perseguire per davvero il sogno di diventare pilota. Appena un anno dopo rimase vittima di un brutto incidente nelle prove della 24 Ore di Le Mans con una vettura ufficiale Ferrari e allora decise di ripartire dalla Formula Junior, a bordo di una Brabham.
Nel 1966 Schlesser si unì alla Matra, in Formula 2 e appena due stagioni più tardi, nel 1968, a quarant’anni riuscì a ritagliarsi il suo posto in Formula 1. Fu la Honda a offrire un sedile al pilota francese. I giapponesi, in occasione del Gran Premio di Francia, che si corse sul circuito di Rouen, decisero di portare una RA302 sperimentale, dotata di scocca in magnesio e motore V8 raffreddato ad aria. John Surtees si rifiutò di guidare la monoposto perché la ritenne poco sicura; Schlesser non si fece scappare quell’opportunità.
Era il 7 luglio. Al terzo giro della corsa, il francese perse il controllo della vettura nella curva Six Frères, al termine del rettilineo del traguardo. Nonostante i tentativi del pilota di correggere la traiettoria, la Honda di Schlesser perse completamente aderenza sulla pista bagnata, andando a schiantarsi contro il terrapieno di protezione del pubblico, a sinistra. La vettura prese immediatamente fuoco a causa del serbatoio pieno di carburante e della scocca di magnesio, materiale altamente infiammabile.
Per Schlesser, estratto dalla sua monoposto dopo cinque minuti non c’era ormai niente da fare. Il corpo era ormai completamente carbonizzato.
A distanza di 53 anni dal tragico evento, quel fine settimana continua a essere ricordato come uno dei più neri nella storia degli sport a motore. Oltre alla morte di Schlesser, cinque spettatori furono portati in ospedale a causa di lievi ustioni causate dai detriti incandescenti che sono stati proiettati in aria dalla Honda del francese. Quella stessa domenica morirono a Spa anche due sidecaristi, che si schiantarono fuori pista mentre nel campionato di motonautica un concorrente perì tragicamente, travolto da un altro scafo.
PIERS COURAGE

Classe ’42, Piers Courage fece il suo debutto nel mondo delle corse nei primi anni ’60, con macchine di piccola cilindrata. Prima salì a bordo di una Lotus Seven, con la quale disputò una gara sul circuito di Brands Hatch, poi grazie alle corse disputate con una Merlyn-Climax Mk4 diventò ufficialmente un pilota professionista.
Tra il 1964 e il 1966 si dilettò nel Campionato di Formula 2 e Formula 3 dove ottenne diversi posizionamenti a podio e vittorie che di fatto gli spalancarono le porte della Formula 1, con la BRM che lo ingaggiò per il 1967.
Nel 1969, corse per la Williams a bordo di una Brabham-Cosworth e grazie alla quale chiuse il campionato all’ottavo posto assoluto.
Nel 1970, la Williams decise di utilizzare una vettura De Tomaso, la 505, progettata da Giampaolo Dallara e di affidarla proprio al talentuoso Courage. Purtroppo l’inizio del campionato non si rivelò ricco di promesse come invece si auspicava e i primi progressi della monoposto iniziarono a farsi notare in occasione della quinta gara della stagione, il GP d’Olanda, dove il pilota inglese si qualificò in nona posizione.
Era il 21 giugno. Piers Courage sta disputando il 23esimo giro della corsa ma mentre si trova alla Tunnel Oost la vettura dell’inglese perse aderenza. Lo scontro contro il terrapieno è inevitabile. Nel tremendo scontro la monoposto si divise a metà e la benzina che uscì dal serbatoio generò un incendio spaventoso. I commissari, non riuscendo a contattare i colleghi dotati di estintori e non potendo estrarre il pilota a causa delle fiamme decisero di sotterrare la vettura, con l’inglese all’interno, per domare l’incendio. Proprio il rogo non ha lasciato minimo scampo al pilota.
JOCHEN RINDT
Classe ’42, Jochen Rindt ancora oggi viene riconosciuto come uno dei piloti più iconici nella storia della Formula 1. Definito da chi l’ha conosciuto come anticonformista e sognatore, il tedesco ha trascorso tutta la sua vita in Austria, affidato ai nonni, dopo che i suoi genitori morirono nel 1942 a causa di un bombardamento.
Il suo debutto in monoposto avvenne nel 1963 e, oltre che in Formula 1, Rindt, ottenne significativi successi anche in altre categorie: soprattutto in Formula 2 e nelle competizioni a ruote coperte, dove riuscì a conquistare la 24 Ore di Le Mans del 1965.
Per il pilota tedesco, che però corse sotto licenza austriaca, le porte della Formula 1 si aprirono nel 1964, debuttando nel Gran Premio d’Austria, al volante di una Brabham della scuderia di Rob Walker.
Fin da subito si dimostrò estremamente veloce sul giro, tanto che la stampa iniziò a soprannominarlo Grindt, dato il suo temperamento in pista. Nel 1968 venne ingaggiato dalla Lotus e nel 1970 ne divenne il pilota di punta, riuscendo a vincere cinque gare. Arrivò a Monza primo in campionato, con venti punti di vantaggio sui diretti inseguitori e l’obiettivo era il tiolo iridato.
Ma una data cambiò tutto nella sua storia. Era il 5 settembre e si stavano disputando le qualifiche del GP d’Italia. Rindt stava affrontando in piena accelerazione il lungo rettilineo che porta alla Parabolica. La Lotus 72 del tedesco andò a urtare violentemente il guard-rail, infilandosi sotto di esso. Proprio in quel punto infatti, c’era una buca, probabilmente scavata da qualche spettatore per la tradizionale invasione di pista a fine gara, e proprio questo fattore, si pensa, abbia reso ancora più tremendo l’impatto.
Nonostante le condizioni in cui versava il pilota, si provò a rianimare Rindt sull’autoambulanza che lo stava trasportando al pronto soccorso dell’autodromo, ma purtroppo morì durante il trasporto.
ROGER WILLIAMSON
Classe ’48, Roger Williamson riuscì ad arrivare in Formula 1 grazie solo ed esclusivamente al talento. Il pilota inglese, che vinse nel 1971 e nel 1972 il campionato britannico di Formula 3, nel 1973 debuttò nella massima serie automobilistica con la March.
Era il 29 luglio. Per Williamson era la sua seconda gara di Formula 1 e in Olanda aveva tra le mani la grande occasione di far vedere a tutti quanto valesse, dopo nel GP di Gran Bretagna dovette ritirarsi anticipatamente dalla corsa. Sul tracciato di Zandvoort, la vettura dell’inglese è vittima di un tremendo incidente, probabilmente causato dall’improvviso afflosciamento di uno pneumatico.
La monoposto di Williams impattò contro le barriere ad altissima velocità fino al suo ribaltamento per poi prendere fuoco. Il pilota incapace di uscire dall’abitacolo, in pochissimo tempo, fu avvolto dalle fiamme e l’unico che cercò di salvargli la vita fu il suo compagno di marca, David Purley che provò a domare il fuoco con un piccolo estintore.
Williamson morì tragicamente, nell’abitacolo della vettura, sotto gli occhi impotenti e impauriti dei commissari che, non essendo dotati di tute ignifughe, a differenza di Purley, non riuscirono a prestare soccorso al pilota inglese.
FRANÇOIS CEVERT
Classe ’44, François Cevert figlio di una famiglia benestante, aveva tutte le carte in regola per un futuro pieno di successi. Dopo aver frequentato le migliori scuole di Francia e il conservatorio, dove apprende a suonare magnificamente il pianoforte, Cevert sembra essere più interessato agli sport a motore piuttosto che all’attività di famiglia.
Il pilota francese iniziò tardi a correre. Ispirato dal fidanzato della sorella, Jean Pierre Beltoise, François si dedicò prima alle moto per poi passare in poco tempo alle quattro ruote, il suo grande amore. Già nelle formule minori riuscì a mostrare tutto il suo talento e debuttò nella massima serie automobilistica nel 1970, a bordo di una March. A raccomandare il giovane Cevert a Ken Tyrrell, ci pensò in prima persona Jackie Stewart, che di fatto lo prese sotto la sua ala protettrice, allevandolo come fosse il suo erede, sportivamente parlando.
Bello come un attore del cinema e capace di far capitolare ai suoi piedi le donne più belle dell’epoca, grazie ai risultati ottenuti nella sua prima stagione di Formula 1, François Cevert viene confermato anche per il 1971, come gregario di Jackie Stewart, col quale farà coppia fino al 1973, stagione della tragica morte del pilota francese.
Era il 6 ottobre. Il campionato di Formula 1 fece tappa a Watkins Glen, per il GP degli Stati Uniti, su quella stessa pista dove due anni prima conquistò la sua prima vittoria nella massima serie automobilistica. Jackie Stewart, fresco campione e prossimo al ritiro, è pronto a lasciare la sua eredità al pilota francese che però morirà tragicamente proprio a Watkins Glen.
Si stanno disputando le qualifiche che determineranno la griglia di partenza e Cevert ha tutte le migliori intenzioni di conquistare la prima pole position della carriera. Alle veloci Esse, la Tyrrell numero 6 del francese decollò sul cordolo andando a impattare contro le lame del guard-rail. La monoposto si capovolse, si spezzò a metà, interrompendo anche la vita del 29enne. L’impatto fu violento e i primi a intervenire per aiutare Cevert furono Jackie Stewart, Jody Scheckter e Carlos Pace. Per il pilota francese dagli occhi azzurri non c’era più niente da fare.
Quale sia stata la ragione del tremendo incidente non è dato saperlo. Forse un errore, un guasto o un malore, visto che proprio poco prima di salire in auto Cevert aveva avuto una crisi di vomito.