Negli anni ’60 fece la sua apparizione nel mondo delle corse una scuderia che avrebbe scritto pagine leggendarie nel corso della sua attività: la Lotus.
Fondata da Colin Chapman – che verrà poi definito “Il Ferrari d’Inghilterra” – fin dai sui esordi la Lotus si caratterizzò per una sofisticata aerodinamica volta a bypassare la scarsa potenza del motore.
Questa continua ricerca ed esasperazione sul fronte telaistico non solo diede vita a una scuderia di macchine da corsa ma anche una fabbrica di automobili che nel tempo riuscì a produrre macchine di rara bellezza che vennero addirittura scelte per i film di 007.
Chapman capì quasi subito che, per contrastare la potenza della Ferrari, l’unico modo era di rivoluzionare le monoposto. Finalmente, dopo diversi studi, concepì una macchina rivoluzionaria per quei tempi: la Lotus 25. Questa monoposto era caratterizzata da una inedita posizione di guida che vedeva il pilota assumere una posizione quasi sdraiata ed ebbe in Jim Clark il suo perfetto interprete.
Il binomio Clark-Lotus ha acceso gli animi per generazioni, scrivendo pagine memorabili della storia del motorsport. Purtroppo, nel 1968, durante una gara di F2, lo scozzese volante trovò la morte – ad Hockenheim – proprio alla guida di una Lotus, la macchina che lo portò al successo rendendolo leggenda.
Chapman ne uscì affranto e sconvolto ma non si arrese. La sua mente cominciò ad immaginare – ed in seguito a creare – una macchina che per il colore, la sigla e… la sua pericolosità, ha reso il marchio inglese famoso in tutto il mondo: la Lotus 72.
Per creare questa macchina Chapman prese ispirazione dalla Lotus 56, dotandola però di un motore che fungeva da elemento portante e rendendola simile a – come diceva Ronnie Peterson – “Una freccia con le ruote”.
Ho visto correre la 72, la ricordo a Monza, bellissima nella sua livrea nera, un po’ ballerina nel posteriore, dote che esaltava le caratteristiche funamboliche proprio di Ronnie Peterson che, correggendo in controsterzo, si buttava sul rettilineo senza perdere velocità.
Purtroppo la 72 è anche la macchina che accompagnò Jochen Rindt nell’olimpo dei piloti. E successe proprio a Monza, quando un eccesso di foga portò il talentuoso austriaco ad impostare la famosa Parabolica troppo velocemente, finendo lungo e rimanendo ucciso nella via di fuga forse non adeguatamente progettata.
L ’ennesimo lutto sembrò frenare Chapman ma non il suo estro. Pochi anni dopo, quando ormai il ciclo della 72 era arrivato al capolinea, il geniale patron inglese cominciò a lavorare al progetto che cambierà per sempre il modo di concepire la macchina da corsa: la Lotus 79
Sempre legato al marchio JPS, la cui livrea nera rendeva la Lotus unica per bellezza e grazia, la 79 presentava un inedito sistema che verrà poi chiamato “effetto suolo”.
Ferrari considerava il modello 79 illegale, mentre il suo entourage la considerava come la tecnicamente più significativa di quell’epoca. Chapman disegnò la vettura in modo da ottenere un effetto alare rovesciato che, unito alle bandelle laterali, chiamate minigonne (forse per omaggiare Mary Quant), creava una sorta di sigillo che portava la vettura a percorrere le curve a una velocità impensabile per l’epoca.
Andretti e Peterson non faticarono a monopolizzare la stagione. E proprio a Monza la supremazia della macchina consegnò il titolo ad Andretti e Peterson nelle mani del destino che lo accompagnò da Clark e Rindt.
Tanti trionfi non illusero il costruttore inglese, infatti Chapman sapeva perfettamente che la sua creatura aveva aperto un filone e che presto l’avrebbero copiata quindi decise di dare vita a una macchina, la Lotus 80, che sarebbe dovuta essere l’estremizzazione massima dell’effetto suolo e farlo continuare a vincere.
Purtroppo il progetto risultò troppo ardito, anzi del tutto fallimentare, tanto da cominciare a minare la solidità finanziaria del team. Ormai alle corde, Chapman tentò il tutto per tutto dando vita alla Lotus 88, caratterizzata da un sistema composto da due telai con quello più esterno creato per generare il massimo effetto suolo.
L’organo mondiale della F1, la FISA, decretò la macchina illegale. La Lotus dovette quindi ricominciare a produrre una macchina senza l’apporto finanziario della Essex, sponsor che si susseguì alla JPS in quegli anni e che finì in un crack finanziario che fece epoca.
Del genio di Chapman, ormai, se ne scorgeva solo qualche sprazzo. Investimenti sbagliati, tra cui l’aver finanziato il fallimentare progetto DeLorean, portò Chapman a navigare in un mare di debiti. Nemmeno la vittoria di Elio De Angelis in Austria nel 1982 riuscì a restituire serenità nell’animo del patron inglese.
Infatti pochi mesi dopo, Chapman scomparve. Forse il cuore, forse una fuga per sfuggire ai suoi debitori, ce lo hanno portato via per sempre.
Senza il suo fondatore la Lotus sembrava un bambino senza la sua mamma. Peter Warr rilevò la conduzione del team ma la confusione regnava sovrana. Fino al 1984, quando alla direzione tecnica giunse Gérard Ducarouge. Per quella stagione il genio francese progettò una macchina finalmente valida che permise a De Angelis di conquistare addirittura il terzo posto finale in classifica generale. Ma Peter Warr voleva di più e per ottenerlo non esitò a pagare una forte penale per aggiudicarsi il miglior talento dell’epoca: Ayrton Senna. E fu subito rivoluzione.
De Angelis, pur dotato di un grande talento, non riuscì ad imporsi sul brasiliano e, incoraggiato da Warr, che mai l’aveva amato tanto, si ritrovò a dover cambiare squadra per il 1986.
Senna e Doucarouge sembravano Chapman e Clark. Il progettista era conscio che il motore Renault Turbo guidato da Senna non sarebbe riuscito ad imporsi facilmente. Effettivamente problemi di affidabilità e consumi ne fermarono spesso la marcia, ma permisero al brasiliano di primeggiare molte volte in qualifica facendogli conquistare ben 8 pole-position.
Scontenti dal Renault, in Lotus usano la loro stella più grande per attirare i favori di Honda, che per il 1987 decide di fornire il team britannico, per l’occasione orfano dello storico sponsor JPS e colorato dal più munifico e giallo Camel.
Nel 1987 la Lotus-Honda a sospensioni attive riuscì a classificarsi terza in classifica generale.
Sembrava il continuo di una leggenda interrotta qualche anno prima ma l’ambizione di Senna lo portò ad andare lontano dalla scuderia inglese ma, sempre in Inghilterra alla corte della McLaren.
La Lotus, orfana del suo gioiello, cominciò a precipitare negli inferi del motorismo. I risultati scadenti la portarono ad essere abbandonata da Honda e ad accontentarsi della più modesta fornitura Judd, come un team di seconda fascia.
Un po’ di luce si intravide nel 1992. Le sospensioni attive e una aerodinamica semplice permisero a Mika Hakkinen e Johnny Herbert di arrivare a ridosso dei primi. Ma ormai la fine era vicina.
Nel 1994 la Lotus chiuse definitivamente dichiarando fallimento e ponendo fine alla sua leggenda ultratrentennale.
Le Lotus della leggenda rivivono oggi a Goodwood mentre, ancora dopo tanti anni, gli appassionati si chiedono il perché di una cosi tragica fine sportiva.
Personalmente ritengo che i motivi principali di un tale epilogo furono legati ad un patron che decise di distrarre le sue attenzioni oltre la F1 (Chapman) e poi ad un altro che mancava di capacità di comunicazione e amministrazione (Warr). unita alla mancanza di una grande casa automobilistica – come FIAT per Ferrari – pronta a finanziarla senza farsi troppe domande.